Innanzitutto per noi la prima regola etica di base, che è anche la prima regola deontologica, è fare bene con professionalità e competenza il proprio lavoro. Non garantire un alto livello di qualità professionale è qualcosa di simile alla millanteria e può produrre anche danni nelle aziende o nei soggetti con cui lavori, anche se spesso questo non viene molto riconosciuto. Spesso la qualità professionale, questa tensione sul fronte dello studio, non è percepita come un valore aggiunto nella consulenza che stai comprando. Spesso vediamo dei soggetti prendere delle decisioni che sono frutto di ignoranza e che comportano rischi: vuol dire che questi soggetti sono malconsigliati. Spesso vedi prendere delle soluzioni che sono delle scorciatoie, per la semplice ragione che non si è saputo identificare correttamente quali sono le figure giuridiche in gioco e costruire un percorso corretto dal punto di vista giuridico.
Poi, un tema che mi piacerebbe raccontare un po’ è quello dei controlli. È una parte importante del nostro lavoro, anche un po’ oscura per certi versi. L’idea – che è stata codificata nel nostro codice civile, ma che c’è in tutto il mondo sviluppato – è quella di un sistema di controlli legali. Questo controllo cos’è? Da un lato c’è questa revisione legale dei conti affidata a dei soggetti che sono commercialisti che hanno delle competenze specifiche. Questa revisione – se si vuole sintetizzare in maniera assolutamente riduttiva – mira a garantire che l’agire della società sia avvenuto in coerenza con quelle che sono le prescrizioni normative; ma dietro a questa affermazione così succinta e apparentemente povera c’è un mare magnum di attività. Sul tema dei controlli si misura uno scontro più o meno esplicito tra l’incaricato del controllo e l’impresa, perché le imprese generalmente non vivono bene il controllo quando è fatto bene. Spesso inoltre i controlli sono fatti male o da gente compiacente e via dicendo e questa è una cosa gravissima. […] Questa è una violazione grave dei principi etici, ma proprio perché può creare un grande pregiudizio e danno futuro all’impresa. Il controllo invece è la cosa che mette in tensione e permette di tenere dritta la barra della direzione aziendale all’interno delle prescrizioni normative; il rispetto delle norme permette all’impresa quantomeno di adempiere a un primo e fondamentale obbligo ma anche impegno etico. In realtà dalla mia esperienza ho visto che, quando un’impresa salta, vedi che non ha i conti in regola e ha commesso delle violazioni di vario genere rispetto alla normativa: c’è chi non ha pagato le imposte, chi ha assunto in nero, chi ha fatto le cose più strane. Di fatto bisogna capire che esiste una correlazione diretta tra il successo dell’impresa o quantomeno la sua capacità di durare nel tempo e il rispetto delle regole. In questo senso, il controllo che si fa sulle imprese ha un valore, perché di fatto aiuta e porta nel solco del garantire la legalità, che è presupposto per la stessa continuazione dell’impresa. C’è da dire però che spesso il commercialista che fa i controlli svolge anche attività professionale nei confronti del cliente: attività che non sarebbero consentite dal codice deontologico e si raccomanda di non fare, e che vanificano l’idea stessa di controllo.
Su questo punto ci sono dei provvedimenti disciplinari da parte dell’ordine?
In teoria, ma in pratica no, o almeno io non sono a conoscenza che siano mai stati applicati. Ci sono dei casi eclatanti in cui qualcosa si è fatto, ma il problema è grave e rimane.
Quanto è importante per lei il suo lavoro?
Mi piacerebbe raccontarle un piccolo aneddoto personale. La mia nonna paterna era una donna molto energica che ha inciso sulla mia formazione molto più di quanto lei avrebbe mai sperato. È rimasta vedova giovane, con molti figli, però era riuscita a farli studiare tutti: anche le femmine, perché suo marito le aveva fatto giurare sul letto di morte di far studiare tutti i figli, anche le femmine. Lei mi ha sempre trasmesso un’etica del lavoro del tipo: ti devi laureare e devi essere indipendente dal punto di vista economico. Per me la scelta di lavorare è sempre stato un imperativo categorico e, probabilmente per questo messaggio familiare, vivo una tensione alla quasi omogeneizzazione tra il fare un lavoro e l’essere… Poi credo che su questo tema giochi anche il fatto di avere la fortuna di fare il lavoro che si ama e che abbia anche un contenuto culturale, che ti permette di studiare continuamente, di vedere cose nuove, di allargare la tua mente. Uno che si trova in queste situazioni ha la vita più facile: è quello che fa nel lavoro, ma quello che fa nel lavoro gli permette anche di essere un uomo migliore. E poi ciascuno è anche molto condizionato da quello che fa di lavoro, perché lo fa per tante ore al giorno: le formae mentis sono una cosa tremenda! A me capita di vedere il percorso evolutivo dei commercialisti, dei medici e di vedere degli stereotipi umani legati alle dinamiche mentali che sviluppi in quel lavoro: la testa di un ingegnere non è la testa di un insegnante. Questo per dire che in generale, sull’importanza del lavoro, è difficile dare una risposta. Si parte dal lavoro e poi dipende anche dall’individuo sviluppare altri interessi per completare la sua umanità. È chiaro che sovrapporsi a una dimensione professionale, per quanto uno possa fare un bel lavoro, è un po’ limitante. E poi, i ragazzi oggi non hanno la fortuna di scegliere: sono già fortunati a trovare qualcosa. I ragazzi hanno un grande entusiasmo perché il primo lavoro è un traguardo, però quello che forse non vedo tanto tra di loro è il sentire l’esigenza di impostare un percorso di crescita individuale: leggere dei romanzi, studiare la storia, andare a teatro per sviluppare un’umanità più completa e gradevole.
Oggi si sente dare a volte la colpa ai giovani di non aver voglia di lavorare.
Chi lo dice, secondo me, è fortemente immorale e irresponsabile. Certo, non vuol dire che tutto vada bene. Potrei dire che i ragazzi oggi arrivano dall’università senza saper scrivere e questa è una cosa drammatica: uno può essere più o meno bravo dal punto di vista tecnico, ma un elemento comune è che non sanno scrivere. Non saper scrivere vuol dire anche non saper organizzare il pensiero, non saper organizzare un testo dal punto di vista logico. Con le persone che lavorano con me, io lavoro di più sull’insegnare a scrivere che sulla parte tecnica. Lei calcoli che, se con un’intelligenza brillante in due anni si raggiunge un buon livello di professionalità tecnica, come minimo ci vogliono cinque o sei anni prima che uno impari a scrivere con un livello di accettabilità. C’è un lavoro di tutoring proprio pesantissimo. Questa per me è una cosa assurda perché è un handicap delle università italiana. Di selezioni ne facciamo almeno una all’anno e quindi sono aspetti che vediamo tantissimo: sulla preparazione tecnica ci sono differenze, ma questi dati di carenza sono proprio generali.
Però, a parte aspetti di questo tipo, l’essenziale è che noi stiamo lasciando un’eredità negativa a voi giovani e questo, parlando di etica, a me pesa. Su questi temi sono angosciata: stiamo lasciando un mondo devastato dal punto di vista ambientale, con un modello economico che è crashato senza aver ancora trovato finanche una soluzione teorica. Le dinamiche di oggi sono assolutamente nuove e non c’è un grande modello che possa sostituire quello attuale. Nell’insieme si creano delle dinamiche economiche che sono al di fuori del controllo individuale e questo è di per sé un problema etico: come la società si sta muovendo verso fenomeni problematici senza riuscire a controllarli. Questa è un’aberrazione, ed è il vero tema etico che noi non riusciamo neanche a delineare.
(a cura di Tiziana Faitini)